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Psicoterapia pratica

Jung, C.G.: Principi di psicoterapia pratica, in Opere vol.XVI, Bollati Boringhieri Torino, 2002, pp. 7-14

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La psicoterapia è un ramo dell’arte di guarire che si è sviluppato e ha raggiunto una certa autonomia solo negli ultimi cinquant’anni. Le opinioni in questo campo si sono andate trasformando e differenziando in vari modi, e la massa di esperienze accumulatesi ha dato luogo a svariate interpretazioni. Ciò perché la psicoterapia non è quel metodo semplice ed univoco che in un primo luogo si credeva fosse, ma si è rivelata a poco a poco una sorta di “procedimento dialettico”, un dialogo, un confronto tra due persone. La dialettica, originariamente l’arte di conversare dei filosofi antichi, servì ben presto a designare un processo creativo di nuove sintesi.
Una persona è un sistema psichico che, quando agisce su un’altra persona, entra in interazione con un altro sistema psichico. Questa formulazione, che è forse la più moderna, del rapporto psicoterapeutico tra medico e paziente, si è evidentemente molto discostata dalla concezione iniziale, secondo cui la psicoterapia era un metodo stereotipato alla portata di chiunque volesse raggiungere un determinato effetto. Non furono esigenze speculative a provocare questo imprevisto e vorrei dire malvisto ampliamento di orizzonte, bensì la dura realtà, forse più di tutto il riconoscimento che il materiale derivato dall’esperienza poteva prestarsi ad interpretazioni differenti. Si svilupparono scuole diverse, con vedute diametralmente opposte (…).
Ciascuno di essi si basa su particolari presupposti psicologici e produce particolari risultati, difficilmente comparabili, talvolta addirittura incommensurabili. Era dunque naturale che gli esponenti dei singoli punti di vista, per semplificare le cose, ritenessero errata l’opinione altrui; ma un’obiettiva valutazione dei fatti dimostra che a ciascun metodo e a ciascuna teoria va riconosciuto un certo credito, in quanto esso hanno tutti al proprio attivo non soltanto determinati successi, ma anche dati di fatto psicologici che provano ampiamente i rispettivi presupposti. Noi ci troviamo perciò nei riguardi della psicoterapia in una situazione paragonabile a quella della fisica moderna che per esempio, a proposito della luce, possiede due teorie contraddittorie. E come la fisica non trova insormontabile questa contraddizione, così anche in psicologia la possibilità che si diano molti punti di vista non dovrebbe far ritenere le contraddizioni insuperabili né le diverse concezioni del tutto soggettive e quindi incomparabili. Le contraddizioni in un campo della scienza dimostrano unicamente che il suo oggetto presenta caratteristiche che al momento possono essere afferrate solo mediante antinomie, come ad esempio la teoria della natura ondulatoria ovvero corpuscolare della luce.
La psiche possiede tuttavia una natura infinitamente più complessa che non la luce; per descrivere in modo soddisfacente la natura della psiche occorrono perciò antinomie ben più numerose. Una delle antinomie fondamentali si può formulare nel modo seguente: “la psiche dipende dal corpo, e il corpo dipende dalla psiche.” Per ambedue i termini di quest’antinomia esistono prove lampanti, così che un giudizio obiettivo non potrà dare maggior peso nè alla tesi nè all’antitesi. L’esistenza di contraddizioni valide dimostra che l’oggetto dell’indagine presenta alla mente del ricercatore difficoltà insolite e che perciò, almeno per il momento, potranno esser fatte asserzioni solo relativamente valide, valide cioè solo in quanto venga precisato su quale sistema psichico verte l’oggetto della ricerca. Giungiamo così alla formulazione dialettica, la quale non significa se non che l’azione psichica procede dall’interazione di due sistemi psichici. E poiché l’individualità del sistema psichico è infinitamente variabile, ne risulta un’infinita variabilità di asserzioni relativamente valide. Se l’individualità implicasse una specificità assoluta, se cioè un individuo fosse totalmente diverso da ogni altro individuo, la psicologia come scienza non potrebbe esistere, in quanto consisterebbe in un inestricabile caos di opinioni soggettive. Ma poiché l’individualità è solo relativa, è cioè complementare alla conformità o affinità esistente tra gli uomini,sono possibili asserzioni universalmente valide, ossia constatazioni scientifiche.
Queste asserzioni,possono riferirsi soltanto a quelle parti del sistema psichico che siano l’una all’altra conformi, cioè comparabili e misurabili statisticamente, e non a ciò che è individuale, unico in un sistema. La seconda antinomia fondamentale della psicologia dice perciò: “ciò che è individuale non significa nulla nella prospettiva di ciò che è generale, e ciò che è generale non significa nulla nella prospettiva di ciò che è individuale.” Com’è noto, non esiste nessun elefante generale, ma soltanto singoli elefanti; tuttavia, se non si desse generalità, una costante pluralità di elefanti, un elefante individuale e unico nel suo genere sarebbe sommamente improbabile.
Queste considerazioni logiche possono sembrare ben le nane dal nostro argomento, ma in quanto rappresentano fondamentalmente l’esito delle esperienze psicologiche finora compiute, portano a conclusioni pratiche di importanza notevole. Se, in quanto psicoterapeuta, assumo un atteggiamento autoritaristico nei confronti del paziente e pretendo di conoscere sia pur parzialmente la sua individualismo o di potermi pronunciare validamente in merito, do solo prova di mancanza di critica, dal momento che non sono affatto in condizione di giudicare nel suo insieme la personalità del mio interlocutore. Su di lui posso pronunciarmi validamente solo in quanto egli si avvicina all’uomo in generale. Ma poiché tutto ciò che vive si presenta sempre soltanto in forma individuale, e su ciò che è individuale negli altri io posso sempre fare enunciazioni basate su ciò che io trovo di individuale in me, corro il pericolo o di sopraffare l’altro o di soggiacere io stesso alla sua suggestione. Perciò se voglio curare la psiche di un individuo devo, volente o nolente, rinunciare ad ogni saccenteria, a ogni autorità, ad ogni desiderio di esercitare la mia influenza; devo necessariamente seguire un procedimento dialettico consistente in una comparazione dei nostri reciproci dati. Ma questo confronto sarà possibile soltanto se darò all’altro la possibilità di presentare il più perfettamente possibile il suo materiale senza limitarlo con i miei presupposti. Il suo sistema entrerà così in relazione con il mio e agirà su di esso. Quest’azione è l’unica cosa che io, in quanto individuo, possa legittimamente contrapporre al paziente. Queste considerazioni di massima producono nel terapeuta un atteggiamento ben d finito che, essendo l’unico di cui ci si possa rendere scientificamente garanti , mi sembra indispensabile in tutti i capi di “trattamento individuale”(…).

Non vorrei dare l’impressione che queste nozioni ci siano piovute dal cielo: anch’esse hanno la loro storia. Benché sia stato io il primo a pretendere che l’analista sia egli stesso analizzato, dobbiamo essere quanto mai grati a Freud per il suo prezioso riconoscimento che anche l’analista ha i suoi complessi e quindi uno o più punti ciechi che operano come altrettanti pregiudizi. A quest’ammissione lo psicoterapeuta arriva nei caso in cui non può più interpretare o dirigere il paziente dall’alto o ex cathedra, prescindendo dalla propria personalità, ma è costretto a riconoscere che certe sue idiosincrasie o un suo particolare atteggiamento sono di ostacolo alla guarigione. Quando non si hanno idee chiare su un punto perché non si è disposti ad ammetterlo nemmeno con sé stessi, si cerca di impedire anche all’altro di diventarne cosciente, naturalmente con suo grande danno. Partendo dall’esigenza che l’analista sia egli stesso analizzato, si arriva all’idea del procedimento dialettico: con questo procedimento il terapeuta entra in relazione con un altro sistema psichico come interrogante e come interrogato. Non è più colui che sa, giudica, consiglia; bensì partecipa al processo dialettico quanto colui che d’ora innanzi chiameremo paziente.

Il procedimento dialettico trae altresì origine dalla “possibilità di interpretare in modi svariati i contenuti simbolici”. Silberer ha operato una distinzione tra interpretazione psicoanalitica e anagogica; io, tra interpretazione analitico-riduttiva e sintetico-ermeneutica. Per chiarire il significato di tali distinzioni, citerò l’esempio della cosiddetta fissazione infantile all’imago parentale, una delle fonti più ricche di contenuti simbolici. Secondo la concezione analitico-riduttiva, l’interesse (la cosiddetta “libido”) rifluisce regressivamente verso un materiale di reminiscenze infantili e ivi si fissa – se mai se n’è liberato. Secondo la concezione sintetica o anagogica, invece, si tratta di parti della personalità suscettibili di sviluppo che si trovano tuttavia ad uno stadio infantile, per così dire ancora nel grembo materno. È’ possibile dimostrare che entrambe le interpretazioni sono corrette; potremmo quasi dire che sostanzialmente di equivalgono. Ma in pratica è enormemente diverso interpretare qualcosa in senso regressivo o progressivo. Di fronte ad un caso del genere, non è affatto semplice trovare la soluzione adeguata e il più delle volte si avverte un senso di insicurezza. La constatazione che esistono contenuti essenziali la cui natura non è certamente univoca ha fatto sorgere alcune perplessità circa l’applicazione indiscriminata di metodi e teorie, facilitando così il confronto tra il procedimento dialettico e i metodi basati sulla suggestione, dai più raffinati ai più grossolani.

La via dell’approfondimento e della diversificazione che Freud inaugurò nella problematica psicoterapeutica porta prima o poi alla logica conclusione che il confronto sostanziale tra medico e paziente coinvolge necessariamente la personalità del terapeuta. Al vecchio ipnotismo e alla terapia della suggestione elaborata da Bernheim era già noto che l’efficacia curativa dipendeva dal cosiddetto rapport (“traslazione” nella terapia freudiana) e dalla forza di convinzione e penetrazione di cui è dotata la personalità di chi cura. In sostanza, nel rapporto tra terapeuta e paziente interagiscono due sistemi psichici; penetrando perciò più a fondo nel processo psicoterapeutico, si giunge infallibilmente alla conclusione che, essendo l’individualità un fattore tutt’altro che trascurabile, la relazione tra terapeuta e paziente comporta un processo dialettico.

Com’è evidente, questo riconoscimento implica un’ottica sostanzialmente nuova rispetto alle precedenti forme di psicoterapia. Per prevenire malintesi, aggiungerò subito che essa non considera affatto scorretti, superflui o sorpassati i metodi esistenti poiché, quanto più si approfondisce la comprensione della psiche, tanto più ci si convince che la multiformità e la multidimensionalità della natura umana richiedono la massima varietà di metodi e punti di vista per rispondere alla varietà delle disposizioni psichiche. È quindi assurdo sottoporre un paziente a cui manchi soltanto una sana dose di buon senso a una complessa analisi del suo sistema pulsionale o esporlo alle sconcertanti sottigliezze della dialettica psicologica. Ma è altrettanto vero che, nel caso di nature complesse, spiritualmente superiori, non si approda a nulla usando consigli benevoli, suggerimenti, tentativi di conversione a questo o quel sistema. In simili fasi, la miglior cosa che il terapeuta possa fare è deporre il suo apparato di metodi e teorie, confidando unicamente nella propria personalità quale punto di riferimento per il paziente. Egli deve inoltre prendere in seria considerazione la possibilità che la personalità del paziente superi la sua in fatto di intelligenza, sensibilità, ampiezza e profondità. Comunque, la prima regola di un procedimento dialettico è che l’individualità del malato ha la stessa dignità e ragion d’essere di quella del terapeuta, e che perciò tutti gli sviluppi individuali che hanno luogo nel paziente devono essere considerati validi, a meno che non si rettifichino spontaneamente. Un uomo meramente collettivo può anche essere modificato per mezzo della suggestione al punto di diventare, almeno apparentemente, diverso da prima, ma in quanto è individuale, può diventare soltanto quel che è ed è sempre stato. Ora, poiché “guarire” significa trasformare un malato in una persona sana, la guarigione implica mutamento. Là dove questo è possibile, ossia dove così facendo non si pretende un sacrificio troppo grande per la personalità, si può con la terapia modificare il malato. Ma quando il paziente intuisce che la guarigione ottenuta attraverso il mutamento richiederebbe un sacrificio troppo grande della sua personalizzazione, il terapeuta può e deve abbandonare ogni velleità di mutamento e guarigione. E deve o astenersi dal trattamento o conformarsi al procedimento dialettico. Quest’ultimo caso è più frequente di quanto si creda; io stesso ho sempre avuto nella mia clientela un gran numero di persone molto volte e intelligenti, dal l’individualità spiccata, che per motivi etici avrebbero opposto la massima resistenza a qualunque serio tentativo di trasformazione. In tutti questi casi, il terapeuta deve lasciar aperta la via della guarigione individuale; questa non comporterà mutamento alcuno di personalità; consisterà invece in un processo, chiamato “individuazione”, attraverso il quale il paziente diventerà quello che è realmente. Nel peggiore dei casi, si assumerà la propria nevrosi, avendone compreso il significato. Più di un malato mi ha confessato di aver imparato a essere riconoscente ai propri sintomi nevrotici, i quali glielo avrebbero sempre indicato, come un barometro, quando e dove deviasse dal suo cammino individuale, o quando è dove avesse lasciato rimanere inconsce cose importanti.